Giacomo Paternò – linguaggi

Linguaggi

(I)
Non sapere il significato
di una parola
spesso non vuol dir nulla,
non ha alcuna importanza.

Il mondo intero
stenta a dire una parola
che abbia senso.
Noi stessi
sembriamo segni sbilenchi
chiusi dentro una logica formale
del tutto irrazionale, in cui le leggi interne
ci sfuggono di continuo.

E non c’è consapevolezza senza conoscenza.
Ma forse non è colpa nostra:
è davvero probabile
che siamo solo inchiostro sparso
casualmente,
vuoti significanti
senza semantica di riferimento
che anche se messi tutti insieme
non possono dir nulla.
Ein Zeichen sind wir, deutunglos,
Schmerzlos sind wir und haben fast
Die Sprache in der Fremde verloren.1

(II)
C’è anche l’ipotesi blasfema
per giustificare
l’assenza di punteggiatura
e l’abbondanza di domande.

È altrettanto probabile
che Chi pensa Sé stesso
per un istante eterno
non abbia pensato affatto,
e abbia scritto una poesia
in un mare divino

viene anche da chiedersi se abbia avuto
il rigurgito del giorno dopo
all’alba di una notte
passata fuori da Sé.
Siamo il diario, il flusso di coscienza
di un Amore represso
da categorie aristoteliche, e non un banale
trattato di grammatica.
Per tutti è inutile
cercare delle regole.

(III)
Adesso la forma è perfetta.
Ma vi sfido a trovare un significato
che passi dalla cruna dell’ago.

Credo mi resti solo
l’effetto palazzesco, il gioco
della torre di Babele, di parole
come nuvole che corrono da sole
e destrutturano il linguaggio
all’osso, come una filastrocca
dalla rima vacua, barocca
di cui però sento l’orrore
e l’odore forte del niente.

Come sempre, vi è la tendenza
all’assoluta assenza di trasparenza
perfino con sé stessi, e ci s’inerpica incerti
inciampando di certo
su irte vie sintàgmiche impossibili
da risalire; e così le chine restano
inchinate alla tecnica della retorica.
È dichiarata la fine
di una semantica prevalente
quasi come fosse un regime.

PS: per caso qualcuno è cascato
nel tranello iniziale, o nel caso?
Perché qui la forma non c’è.
Oppure sì?…
(IV)

Ho speso tutta la mia vita ad ordinare il mondo
secondo misura, numero e peso.
E la mia lingua scivola lieve
lungo il regolo della lingua:
non si sente una sillaba, o una battuta
al di là del metro, e il tempo è sospeso
però mai sbilenco, al di là del vetro
di questa finestra sbarrata
da cui attonito osservo
l’anima spianata della vita
da cui ho rimosso il sublime
e ogni minima collina che ondula
la terra tremula del cuore.

La livella è in perfetto equilibrio
precario, come l’esercizio eroico del controllo
a cui tende ogni mio sforzo, sino allo strenuo,
fino al limite estremo della follia
di chi non sa di essere solo,
senza più nessuno che lo ascolti
o che si ricordi, almeno una volta
di andare là dentro per portarlo via
dalla prigione ove si è rinchiuso,
per fargli respirare ancora
l’aria di un mondo confuso
ma incommensurabile
di bellezza e atrocità.

(V)
La mia invidia
è per il loro linguaggio.

Il fruscio delle foglie
dei rami strascicati dal vento
è quella voce
che puoi sempre ascoltare
e che sembra portare
il cielo
più vicino a te.

Spesso hanno il tono dell’urlo,
dell’invettiva polemica o della denuncia,
del monito solenne, dell’avvertimento.
Altre volte, le piante
mormorano basse
la facile ironia
su chi gli sta vicino: giganteschi tralicci
immobili e silenziosi
come goffe icone
della modernità.

Nei loro fili corrono
in miliardi,
in una folle frenesia
e un Dio ferroso
regge le loro esistenze, mosse solamente
da Leggi sicure
da meccanismi dogmatici

mentre io, goccia d’acqua
di lago stagnante, divento
Motore Immobile
del mio microcosmo, e mi fermo a raccogliere
le lacrime dei salici che crescono
sulle sponde dell’anima.

(VI)
Di solito si parla con le parole
ma oggi parliamo delle parole.
Il mondo supera le parole:
la vita travolge il linguaggio formale.

E poi, quanta gente spreca parole,
o semplicemente le usa male!
Bisognerebbe di nuovo
imparare a guardare
gli occhi di chi
ci parla dinanzi; bisogna imparare
ad avere pazienza, ed ascoltare
cosa dice il silenzio.
Sono lì che risiedono
le parole più vere, e che spesso faticano
a venire fuori.

Per non parlare di quella volta,
quando ti vidi per la prima volta:
rimasi davvero senza parole,
come un bambino alla luce del sole
che non ha ancora
imparato a parlare.

Per fortuna l’amore
supera ogni lingua e parola:
arriva diritto, da cuore a cuore
e tu resti zitto,
col tuo nodo alla gola.

(VII)
Perdere
il filo del discorso
il senso del linguaggio
il motivo
per dire anche una parola

ed ascoltare
il riflusso del silenzio,
un gorgoglio lontano
come il rumore di fondo
del letto di un fiume.

Ora ho dimenticato
dove io sono
che io sono
perché ho galleggiato a lungo
sopra la mia entità
mi ritrovo naufrago
in una dimensione remota
senza memoria
senza tempo
senza volontà
senza la necessità di chiedermi
se sono libero.

Sipario d’Oro

 

quadro di Pittura Fonetica di Alberto Sighele ispirato dai collages in omaggio al Sipario d’Oro già presenti nel Foyer dello Zandonai ad opera di Giacomo Bonazza artista e critico di valore e generoso  animatore sociale (ha da poco portato con un apposito comitato il teatro di Pedersano dentro il Sipario d’Oro…)
Delle opere di Bonazza c’è documentazione nel quadro sopra in fondo a sinistra. Qui Sighele festeggia la Compagnia Fonetica che ha appena portato una sua opera Passo Buole Termopili d’Europa sul palco di Pomarolo. Lo scherzoso gioco di parole fonetico è nel ringraziare perché  sono arrivati anche “loro  a Pomarolo al Sipario d’Oro”!